Regolamento e Incipit
Modulo d’iscrizione
TESTI VINCITORI
CATEGORIA 14-16
GIULIA MILANI (L.s. “G. B. Grassi” Lecco)
prima classificata
Accarezzava il pancione in piccoli cerchi attorno al bottone della sveglia: così il bambino si tranquillizzava subito quando scalciava; ma quella notte era stato immobile quasi seguisse il filo dei pensieri della madre. Lisa aveva ripetuto la stessa frase per tutto il giorno precedente e anche quella mattina di inizio estate il ritornello che le rimbombava nella testa era sempre lo stesso:
“ Qualora la maggioranza degli elettori votanti (nel referendum istituzionale, n.d.r.) si pronunci in favore della Monarchia, continuerà l’attuale regime luogotenenziale fino all’entrata in vigore delle deliberazioni dell’Assemblea sulla nuova Costituzione e sul Capo dello Stato”.
Percepiva della tensione nell’aria, delle vibrazioni che non c’erano state fino al giorno prima; anche nel piccolo paesino montano di Erve la solennità del Referendum era tangibile: il tempo sembrava dilatato, perfino il torrente pareva scorrere più lentamente, come se il momento di mettere la croce su quella scheda non volesse arrivare. Era veramente l’inizio, a Erve come in tutto il resto d’Italia, di una nuova epoca e Lisa non sapeva ancora dire se migliore o peggiore, ma sicuramente diversa da quella appena trascorsa, un’epoca in cui lei, come tante altre, anche se non aveva combattuto nessuna Guerra Mondiale, anche se portava la gonna e non i pantaloni, poteva con un piccolo segno influenzare il destino della sua patria.
Un ricordo si fece largo nella sua mente così vivido e intenso che non sembravano passati nove anni da quel pomeriggio di fine agosto; eppure c’era stata una guerra di mezzo che aveva trascinato via molti sogni e speranze e spezzato vite, intere generazioni. Molto tempo prima lei ed Ettore avevano risalito il corso del torrente, si erano arrampicati su uno sperone di roccia e poi, sdraiati con la testa una accanto all’altra, avevano osservato la luce che penetrava tra le fronde degli alberi. Lui, guardando le macchie di azzurro che s’intravedevano fra i rami, al solito aveva fatto i suoi discorsi da idealista cui Lisa non credeva affatto. -Costruiremo un mondo migliore- le aveva sussurrato all’orecchio con la sua voce profonda, calda e rassicurante. Ettore era fermamente convinto delle sue parole, era fatto così: un instancabile sognatore, nato per lottare contro le ingiustizie e con una luce che gli illuminava gli occhi ogni volta che parlava di politica e dell’avvenire. Ettore ci aveva provato, aveva combattuto; era diventato sindaco del paese, ma siccome durante la guerra aveva aiutato la Resistenza fornendo munizioni e viveri era stato preso dalle SS insieme al parroco. Prima che fosse strappato dalle sue braccia, Lisa gli aveva singhiozzato: -Dio non lascerà che questo mondo vada avanti così-. E lui le aveva sussurrato: -Tu continua a lottare per un mondo migliore, fallo per me, per Giorgio -. Lisa aveva continuato a combattere come le era stato detto fino al giorno in cui, due anni dopo, una parte di lui era tornata dimagrita e invecchiata di dieci anni, ma quella luce speciale nei suoi occhi non si riaccese mai più. Aveva perso fiducia nel futuro, aveva smesso di lottare. Quella mattina non sarebbe andato alle urne, anzi aveva deciso di fare una lunga camminata in montagna e di tornare la sera tardi. Il piccolo Giorgio aveva chiesto più volte al padre cosa avrebbe votato e ogni volta lui si faceva scuro in volto; allora il nonno interveniva spiegandogli con pazienza che il voto dovrebbe essere segreto. Lisa non aveva alcun dubbio su quali erano le preferenze del suo vecchio padre: il Re gli aveva elargito la Medaglia di Cavaliere di Vittorio Veneto per avere combattuto nella Prima Guerra Mondiale e aveva istituito la pensione di guerra con la quale erano riusciti a campare nei momenti peggiori.
In chiesa le omelie del nuovo sacerdote si erano trasformate in discorsi propagandistici per la D.C. e così inevitabilmente, terminata la funzione sul sagrato della chiesa, nascevano dibattiti politici molto accesi riguardo all’Assemblea Costituente. Gli amici di famiglia che avevano partecipato alla Resistenza sicuramente avrebbero votato per la Repubblica, ma nei loro commenti alle notizie date alla radio o lette sui quotidiani, Lisa non riusciva a comprendere se fossero orientati verso il Partito Socialista o la D.C.: ammiravano la modernità e l’innovazione della sinistra, però erano comunque legati al credo che professavano e ogni volta che elogiavano una qualità del Partito Socialista la conversazione si fermava per un attimo terminava con la tipica frase ”Però anche la D.C. è molto equilibrata”.
Lisa non vedeva l’ora di votare per continuare quella lotta che era stata abbandonata da suo marito.
Proprio in quel momento il borbottio della moca distolse Lisa dai suoi pensieri. Ma Lisa sapeva benissimo cosa votare.
SHARON RUBERTO (Istituto “G. Bertacchi” Lecco)
seconda classificata
Immersa tra tutti questi pensieri, le cadde l’occhio sul grande orologio posto sopra la mensola della cucina: erano le 7.30, era in ritardo. Le lezioni della scuola primaria, dove ormai lavorava da cinque anni, iniziavano alle 8.00 e lei aveva solo pochi minuti per finire il suo caffè e precipitarsi all’istituto. Lasciò la tazza, non del tutto vuota, nel lavello. Andò in camera, sopraffatta dall’ansia: sentì il mondo rovesciarsi dentro. Per far tacere l’emozione, cercò con cura l’abito più adatto per quella occasione, indossò il suo capello di stoffa color panna, prese la borsa di cuoio contenente il poco materiale scolastico che le occorreva e, uscendo in fretta dalla sua abitazione, raggiunse a piedi la scuola, poco distante, con un lieve ritardo.
Gli alunni, al suo arrivo, erano già seduti e, vedendola entrare, svogliatamente presero fogli di carta, inchiostro e calamaio. Quelle poche ore di scuola sembravano non terminare mai: avrebbe tanto preferito rimanere a casa a rimuginare sul da farsi. Appena uscita da scuola, sarebbe andata di corsa a votare. Mancava ormai poco tempo alla chiusura delle urne. Era così impaziente, desiderava solo esprimere come cittadina la sua preferenza per il futuro del Paese dopo il dramma della guerra: finalmente, dopo anni di battaglia, si sarebbe sentita allo stesso livello sociale degli uomini, il suo voto avrebbe influito e, insieme a quello di altre donne, sarebbe stato determinante per i destini dell’Italia.
Finalmente suonò la campanella che comunicava la fine delle lezioni. Dopo essersi assicurata che ogni bambino fosse uscito, si incamminò per andare a votare. Passeggiando sotto il sole cocente della piccolo paesino romano, mentre ammirava i lunghi filari di erba verdissima, abbelliti da piccole margherite che spuntavano di tanto in tanto qua e là, sentì delle urla:
– Agnese! Agnese, fermati!
Si voltò. Era Carlo. Scocciata, si fermò, scorse in lui un sorrisetto. Non preannunciava nulla di buono. Il ragazzotto malvestito e con quell’aria da sbruffone che Agnese non sopportava per niente, le si avvicinò esclamando con ironia:
– Sarai felice, finalmente voi donne avrete il vostro momento!
Il suono di quelle parole le trasmettevano un misto di ignoranza e maschilismo. Cominciava a irritarsi, ma tenendo a freno la sua indole impulsiva, rispose abbastanza tranquillamente alla provocazione:
– Molto felice.
Voltandosi senza nemmeno guardarlo negli occhi e tanto meno salutandolo, girò i tacchi. Lui prontamente le afferrò un braccio e bruscamente la fermò:
– Che comportamento è questo? Non ho terminato la conversazione.
– Scusami, sono davvero in ritardo.
Ora era davvero furiosa. Come si permetteva di afferrarla e sbraitarle contro e chi avrebbe voluto ascoltare le sue provocazioni? Di certo non lei, aveva ben altro da fare. Ma lui, testardo, non demordeva e tenendole il braccio le disse:
– Pensi che questa buffonata del voto concesso a voi donne farà cambiare qualcosa? Pensi realmente che ora siete al pari di noi uomini?
Eccola la goccia che fece traboccare il vaso. Il viso le divenne paonazzo dalla rabbia, si liberò dalla presa del ragazzo e con tono fermo e secco rispose:
– No, non lo penso! Ne sono certa. Ora devo andare, arrivederci.
Prima che lui potesse ribattere, Agnese si voltò e con passo veloce si allontanò.
Mentre con passo svelto si recava alle urne, era turbata. Tutti i pensieri della mattina le erano tornati in mente… e se per la sua preferenza politica avesse perso i suoi amici e l’appoggio della sua famiglia? Non c’era cosa che la spaventava di più che la solitudine. La aveva odiata fin da piccola. Era fermamente convinta che nessun essere umano poteva sopravvivere solo. Ma c’era qualcosa di più forte dentro di lei: l’orgoglio di sentirsi pienamente una cittadina italiana, e soprattutto l’orgoglio di sentirsi donna.
Riguardò l’orologio. Mancavano pochi minuti alla chiusura delle votazioni. Giunta al seggio, si mise in fila, aspettando impazientemente il suo turno. Presentò il suo documento di riconoscimento e si chiuse nell’urna. Repubblica o monarchia? Ci pensò un attimo, per l’ultima volta. Un attimo lungo una eternità. La sua mano affusolata, gentile, di donna afferrò la matita e si avvicinò alla scheda elettorale. Quel gesto lo sentì rivoluzionario, per sé, per il Paese, per le donne. Mentre sigillava la sua scelta, una lacrima, calda e dolce, cadde sul foglio.
DEBORA SECCI (L.l. “A. Manzoni” Lecco)
terza classificata ex-aequo
Era una di quelle giornate in cui, nonostante il bel tempo non si ha voglia di guardare fuori dalla finestra, ci si ferma a scrutare la propria immagine lì, imprigionata, riflessa. Era una donna con una tazza fumante di caffè stretta tra le mani a coppa, una donna che avrebbe avuto l’occasione di votare, una donna con tanti pensieri e mille parole, una donna come molte altre donne italiane. Ma forse anche la consapevolezza di essere uguale a molte altre donne, che probabilmente avevano le sue stesse preoccupazioni e condividevano i suoi stessi pensieri, non alleviava quella leggera agitazione mista ad un lieve senso di preoccupazione e solitudine. Fu una mattinata un po’ diversa: i pensieri e i dubbi si moltiplicavano, la preoccupavano e non avevano intenzione di lasciarla tranquilla e abbandonare la sua testa. Quello che sapeva era che sentire certe responsabilità a volte non è divertente, a volte è un peso, ma era anche consapevole che ciò l’aveva resa una persona migliore: il fatto di saper pensare con la sua testa, di sapersela cavare da sola. Amelia finì il suo caffè e appoggiò la tazzina di ceramica sul tavolino di fronte a lei. Fuori dalla finestra una giornata frizzante, tipicamente primaverile. Sul pannello di vetro che la divideva dall’esterno si era impresso il suo riflesso: capelli ben pettinati, un vestito sobrio e dignitoso, il suo paio di scarpe migliori. Aspettò che suo marito e sua figlia si alzassero e si preparassero. Passarono alcuni minuti in silenzio, seduti a tavola, ognuno con la propria tazza di caffèlatte: sua figlia appena diciottenne era immersa nei suoi pensieri in religioso silenzio e suo marito beveva piano dalla tazzina perdendosi tra le righe del suo quotidiano. Quando anche il marito ebbe appoggiato la tazzina e ripiegato accuratamente il giornale, si alzarono entrambi e uscirono insieme. Camminarono in silenzio, il marito con le mani in tasca, Amelia con lo sguardo a terra, la leggera brezza primaverile le scompigliava i capelli mentre assente si sistemava il foulard che portava al collo. Fu suo marito a parlare per primo e spezzare quel silenzio di ghiaccio –“Vota usando la tua intelligenza” –Amelia si riscosse e si limitò ad annuire. Sì, avrebbe votato usando il cervello, le sue esperienze, le sue convinzioni, facendo quello che a lei sembrava più corretto. Il voto era una responsabilità, la responsabilità può portare alla solitudine, e questo una donna come Amelia lo sapeva bene, una donna che di responsabilità ne aveva sempre avute tante, lei che era una donna coraggiosa, proprio come diceva il suo nome.
Ed era arrivato il momento. Prese un sospiro, si sentì un poco agitata, un’agitazione piacevole però, quel tipo di agitazione che ti fa capire che ti è stata affidata una responsabilità che nonostante sembri piccola e irrilevante in realtà conta molto. Amelia aveva anche un po’ paura mentre guardava le scheda e stringeva la matita tra le dita, invece questa era una paura leggera, forse quella di deludere le aspettative, forse quella di sentirsi un po’ spaesata nonostante tutto.
Amelia era una donna e, come tante altre in quel giorno, votava, tracciava un segno sulla scheda con la matita, un segno preciso e sicuro come la sua decisione, come quello che aveva scelto di votare. Fu quando ebbe consegnato che un pensiero che si era annidato nella sua mente per tutto questo tempo fece di nuovo capolino “e, se dopo essersi presa questa responsabilità, fosse rimasta da sola?” Quello fu un pensiero costante: ci pensava mentre cucinava, mentre sistemava la casa, quando faceva la spesa, quando si rilassava. Solo quando i risultati del Referendum furono pubblici si sentì un po’ meglio, e forse anche un po’ meno sola e più sollevata.
Si era presa le sue responsabilità, ma questa volta non era rimasta da sola. Nonostante il rischio fosse alto si era presa le sue responsabilità, e ora lo sapeva: non era da sola nel suo voto.
LUCA CARDACIOTTO (Istituto “L. Rota” Calolziocorte)
terzo classificato ex-aequo
I suoi pensieri furono interrotti dal rumore crescente del caffè, si avvicinò al fornello, spense il gas, prese la caffettiera e in una tazza si versò il liquido scuro; l’aroma si sparse per tutta la stanza.
Caterina lo inspirò profondamente, spense il fornello e vi appoggiò sopra il caffè rimasto.
Si avviò verso il tavolo, prese una sedia, la spostò in modo da potersi sedere, appoggiò la tazzina sul tavolo e si lasciò andare sullo schienale.
Pensò a tutto quello che era appena finito, la guerra, la fame, la paura di morire sotto una bomba. Ma soprattutto pensò a quello che stava per cominciare quel giorno, e lei ne avrebbe preso piena parte.
Bevve il caffè in piccoli sorsi veloci, finendolo così in pochi secondi, era lo stesso gesto che faceva la madre. A quel pensiero a Caterina si riempirono gli occhi di lacrime, pensò al suo dolce sorriso, ai suoi capelli lisci e neri e agli occhi profondi e scuri color caffè. In un lampo tornò a quel giorno d’inverno di tre anni prima, i tedeschi non facevano che bombardare ospedali e centri profughi.
Sua madre era infermiera, lavorava in un campo profughi; per quello che le avevano detto era morta cercando di salvare delle vite, semplicemente era saltata in aria, come milioni di altri innocenti. Stava cercando di portare in salvo una ragazzina, la portavano sulle spalle, poi un’esplosione. Dove prima si trovava lei non rimase che un grosso buco bruciacchiato, così, semplicemente, e come a sua madre era successo a molte altre persone, le quali prima avevano un nome, un volto, degli amici, dei parenti, dei ricordi e ora, semplicemente, non li avevano più. “Tuttemorti inutili”pensò Caterina. Ora le lacrime le scendevano sulle guance, le asciugò col dorso della mano, si alzò di scatto e si avvicinò alla finestra scrutando fuori. La strada era vuota, il sole picchiava, ma ancora il vento soffiava un vago ricordo di primavera. Il palazzo davanti alla loro abitazione era mezzo crollato, le finestre erano tutte infrante e il portone, un tempo robusto e altezzoso, giaceva scardinato e accasciato accanto al buco della porta ormai anche esso semidistrutto.
Sentì un rumore e si girò di scatto distogliendosi dai suoi pensieri. Roberto, il fratello maggiore di Caterina, stava entrando e si dirigeva deciso verso il fornello dove il caffè avanzato aspettava qualcuno che lo bevesse.
Se lo versò in una tazzina e lo finì in un sorso. Solo a quel punto guardò la sorella e, accompagnato con un cenno della testa, disse in tono annoiato: – ‘giorno. Caterina ricambiò con un sorriso forzato, distogliendo subito lo sguardo. Non voleva che il fratello si accorgesse delle lacrime.
Lui non badò tanto a quel gesto e chiese, sempre con fare annoiato: -Gran giorno, no?! Ti sei decisa per oggi ?-.
Caterina non rispose, sapeva che il fratello era fascista e non aveva voglia di litigare, lei non avrebbe mai votato per quei porci.
Poi, senza volerlo, dalla sua bocca uscirono delle parole, che avevano atteso troppo prima di essere pronunciate: “Sicuramente non voterò chi riporterà le idee degli assassini di nostra madre”.
Roberto fece cadere la tazzina che si infranse con un rumore secco e rimase lì con la bocca aperta e gli occhi spalancati.
Caterina continuò: -Lo sai che tutte quelle sono morti inutili! Non c’è niente di coraggioso nell’uccidere.
Roberto si riprese, aprì la bocca come per rispondere, ma si limitò a sorridere beffardamente e a scuotere la testa, poi si incamminò verso l’uscita.
Arrivato davanti alla porta disse: -Non capirai mai niente, i morti sono necessari- e se ne andò.
Caterina voleva urlare, ma la voce le mancò, le gambe si fecero molli e si lasciò andare sulla sedia con gli occhi rossi e lucidi.
Non voleva credere che qualcuno ritenesse i morti necessari.
Rimase per un po’ lì, immobile. Poi di scatto si alzò, si asciugò le lacrime, prese il cappotto e uscì.
CATEGORIA 17-25
AURORA MUIA (Istituto “M. Polo” Colico)
prima classificata
E lei conosceva molto bene quel sentimento, negli ultimi anni era stato il suo compagno di viaggio , eppure aveva imparato a conviverci, a leggerne le sfumature e, soprattutto, a conoscere se stessa più a fondo. Dalla finestra osservava il mondo che continuava la sua corsa incessante e continua, mentre i suoi occhi, fermi nei ricordi, ripercorrevano in un soffio la sua vita……Quanta strada! Gli anni più belli erano stati quelli percorsi con suo marito, seppur fra stenti e ristrettezze; poi gli anni bui delle due guerre, le gravi perdite affettive, ed infine questo vagare sottobraccio alla solitudine, per cercare di sopravvivere. Ed oggi la vita le regalava una grande opportunità, per lei e per tutto il suo Paese che attendeva con trepidazione questa fatidica svolta , che permetteva finalmente ai cittadini italiani di scegliere e di essere quindi partecipi attivamente alla vita politica del Paese. 82 anni, e stamane, Giulia, si preparava per la prima volta ad esprimere liberamente il proprio pensiero al mondo intero. Era da tempo ormai che aveva già preparato, come ogni persona prudente, i bagagli per il suo ultimo viaggio, ma la sorte le aveva riserbato ancora questa grande occasione. Dopo oltre vent’anni di silenzi e sottomissioni, finalmente il popolo italiano tornava ad aver voce e poteva così cantare la melodia che aveva in cuore. E le donne italiane avrebbero per la prima volta preso parte a questo grande concerto, unendo le loro voci. Ma Giulia sapeva bene che i cori erano di due arie diverse…..per le strade, nelle botteghe e fra la gente non si parlava di altro…..i bisbigli e le occhiate furtive lasciavano intendere le diverse filosofie che aleggiavano nell’aria. Ognuno era restìo a manifestare il proprio pensiero pubblicamente, sebbene fosse certo di ciò che serbava in cuore. Ma il motivo della sua agitazione, che non l’aveva lasciata riposare tranquillamente la notte appena trascorsa, era il pensiero costante di ciò che avrebbero preferito intonare i suoi cari. Quanti dubbi, quante domande ! In effetti non avevano mai discusso in maniera chiara e trasparente dell’argomento, era una sorta di tabù che ognuno portava dentro di sè e che custodiva quasi con pudore, ma le rare volte in cui si erano trovati tutti intorno ad un tavolo, le allusioni e le frasi in sospeso, lasciavano credere e sperare che, con voce unanime, lei e la sua famiglia avrebbero cantato la stessa melodia. Ecco dunque che, seppur con tanta emozione nel cuore per quel grande giorno che si apprestava a vivere e che sarebbe rimasto nella memoria della storia italiana, Giulia riuscì a recuperare un po’ di tranquillità.
L’estate era alle porte e Fiesole, solitamente a quell’ora, era ancora assopita. Ma questa era una strana domenica; nonostante fosse appena cominciato ad albeggiare, per le strade si sentiva un via vai di gente che con orgoglio ed emozione si accalcava in Piazza Mino dove aveva sede il Municipio. Dalla finestra Giulia poteva ammirare la grande affluenza di persone che scalpitavano per poter esercitare il proprio diritto di voto e la maggior parte di esse erano donne, che, pazienti ed abituate alle estenuanti file della guerra, oggi si allineavano con spirito libero, alle lunghe code dei seggi .
Appoggiò la tazza nel lavello e si accinse a prepararsi. L’abito scelto era quello del dì di festa, e come unico ornamento, il giro perle, regalo di nozze…quest’oggi avrebbe fatto a meno del rossetto rosso fuoco che abitualmente metteva, pensò, perché nell’umettare con le labbra il lembo della scheda da incollare, avrebbe potuto vanificare la validità del voto.
MONICA MAGGIONI (L.s. “L. Rota” Calolziocorte)
seconda classificata
Soddisfazione, ansia, inquietudine: era tutta in subbuglio, tanto che il profumo caldo del caffè quasi le dava la nausea. In quel giorno si sarebbe fatta la storia e lei finalmente ne avrebbe fatto parte.
I suoi pensieri furono bruscamente interrotti da uno scalpiccio delicato seguito da un passo più pesante…”Buongiorno cara” le sussurrò dolcemente il marito. “Ciao mamma” disse squillante la piccola Anna.
Si destò dai suoi pensieri. Non che non amasse la sua famiglia. Ma era un giorno diverso dal solito: anche solo per un attimo, si era dimenticata dei suoi compiti di donna.
Che strano, per tutta una vita non aveva pensato ad altro che a quelli, ma ora si rendeva conto che, se il suo Paese le dava la possibilità di scegliere, forse dopotutto lei era qualcosa di più di una mamma, di una moglie.
Vestì la piccola Anna con la cura e la dolcezza di sempre e insieme uscirono.
Finalmente il traguardo che le era stato precluso per anni era lì, a pochi metri.
Camminava e pensava e camminava e ripensava. Ciò che più la preoccupava, alla fine, era sempre il rischio della solitudine. Prendere delle decisioni, comporta delle conseguenze.
Tante domande, troppa confusione: anche le idee che aveva ritenuto giuste ora scricchiolavano.
Girò l’angolo.
Con grande stupore trovò la piazza antistante alla sala dei seggi occupata. Non comprese subito cosa stava accadendo: la gente si divideva tra urla di rabbia e grida di gioia, segni di sdegno e gesti di esultanza.
Si stava ripercorrendo la storia: lì in quella piazza, davanti ai suoi occhi, sotto quel sole che le aveva ispirato tanta fiducia, si stava ripercorrendo la storia. Storia di donne escluse dalla vita politica e sociale, donne private dell’istruzione. Donne sfruttate sempre e dovunque: operaie sottoposte a turni massacranti, sottopagate. Storia di uomini che, non si sa quando né perché, si erano arrogati il diritto di trattarle come schiave. Marionette, attaccate ai fili governati via via da mani diverse: padri, mariti, figli; uomini sordi di fronte a un grido disperato di libertà. Storia di violenza, storia in cui le donne avevano sempre ricoperto un ruolo marginale. Storia che stava per arrivare a un punto di svolta.
Tra tanti, un uomo trascinava via la propria moglie che stava per unirsi a un gruppo di femministe che gioiva per quella giornata benedetta. Più in là, un altro stava bruciando i manifesti e gli striscioni poco prima affissi da una giovane ragazza, che con caratteri rosso fuoco gridavano lo slogan divenuto l’urlo di quella battaglia: “Potere alle donne”.
Non sapeva cosa provasse: fuoco, fumo, grida . Festa e distruzione.
Teneva solo stretta tra le braccia la sua piccola Anna. Panico. Perché? Perché anche lì, anche quel giorno, dopo anni di lotte, le donne venivano ostacolate? Perché?
Una lacrima le rigò il viso. Non era paura, no. Erano desolazione e sconforto a pervaderla.
Fece un passo indietro per allontanarsi, stringendo ancora di più la sua bimba.
E proprio allora, nel compiere quel gesto istintivo e quotidiano, capì perché stava andando a votare. Per lei. Per la sua Anna e per tutte quelle donne che prima di lei non avevano potuto farlo. Paura oppure no, votare era un gesto che ella doveva a tutte loro.
Si fece coraggio, fece un passo e poi un altro e un altro ancora. Man mano cheavanzava, capiva che era la cosa più giusta che potesse fare.
Ad ogni passo scavalcava e si lasciava alle spalle anni di soprusi, di diritti mancati, anni che forse stavano per diventare lontani ricordi.
Senza accorgersene si ritrovò davanti alla sala dei seggi. Era arrivata, eppure era solo l’inizio.
Varcò la soglia dell’edificio e pronunciò fiera il suo nome.
Entrò nella cabina.
3 giugno 1946. Ada aveva votato. Ada era qualcuno per il suo paese. Ada stava scrivendo la pagina di una nuovo Storia. Il sole di quel mattino era davvero il segno di un’alba nuova.
NICOLE TORRI (L.s. “L. Rota” Calolziocorte)
terza classificata
Girò il cucchiaino nella tazzina, e allo stesso modo i pensieri girarono nella sua testa. Nomi, proposte, candidati, opinioni… Stava facendo la scelta giusta? Era una grande responsabilità, una responsabilità per la quale soprattutto donne, ma anche uomini di diverse età e nazioni avevano lottato duramente.
“Se giri un’altra volta quel cucchiaino consumerai la tazzina” La voce calda di sua madre la destò dai mille pensieri e la riportò sulla terra ferma.
Annabelle alzò lo sguardo dalla tazza e lo posò su di lei; era ancora una bella donna, i capelli neri raccolti in una coda, il vestito a fiori lungo fino alle ginocchia a coprire un corpo esile segnato dal tempo e dalla sofferenza.
Da bambina aveva sempre ammirato molto sua madre, ora invece guardandola provava solo una sorta di compassione mista a rabbia; rabbia perché aveva scelto di non votare; rabbia perché avrebbe così vanificato le lotte di chi aveva combattuto perché le donne conquistassero quel diritto.
Annabelle sapeva che il motivo della decisione di sua madre stava al piano di sopra, probabilmente si stava preparando per andare al lavoro, fischiettando, perché per suo padre quello era un giorno come gli altri.
Quando la radio aveva annunciato che i seggi elettorali sarebbero stati aperti la mattina del 2 giugno e che per la prima volta anche le donne avrebbero potuto votare, le sue parole avevano espresso molto chiaramente il suo pensiero: “Assurdo, tra poco anche i cani potranno votare.”
E sua madre aveva abbassato lo sguardo, quasi si sentisse in colpa per quel diritto che ora aveva anche lei.
Qualcosa la distolse nuovamente dai suoi pensieri: era il passo pesante di suo padre che scendeva le scale e si dirigeva in cucina. Alzò lo sguardo e incontrò il suo, freddo come il ghiaccio.
Lui la guardò per qualche istante e poi le chiese: “Dove pensi di andare?”
“Vado a votare, papà”. Annabelle pronunciò l’ultima parola con distacco, come per sottrarsi alla sua autorità.
“No, tu non voterai”
Non era mai successo che qualcuno in quella casa si opponesse alla volontà di suo padre: lui era potere, giustizia e controllo su qualsiasi cosa accadesse tra quelle mura. Ma Annabelle si sentiva forte di qualcosa di nuovo, qualcosa che sapeva di libertà.
Si alzò dalla sedia. Guardò suo padre fisso negli occhi e disse:
“La vita è fatta di scelte. Oggi io scelgo di fare la differenza, scelgo di andare a votare. Non importa cosa farai tu, non importa se lei resterà in silenzio e accetterà la tua decisione, oppure se non la accetterà ma non farà niente per cambiarla. Io voglio poter scegliere, sbagliare, riprovare. Io voglio votare”
Pronunciò queste parole con un impeto che avrebbe spiazzato chiunque.
Afferrò la borsa che aveva appoggiato sulla sedia accanto alla sua e uscì di casa sbattendo la porta. Non guardò suo padre, e non gli diede il tempo di risponderle. Non guardò sua madre, e non le diede il tempo di fermarla.
Fece i primi cento metri quasi correndo, come se avesse paura che qualcosa la trattenesse o la spingesse a tornare indietro. Quando se ne accorse si fermò. Il sole le illuminava il viso di una luce nuova.
Rallentò e fece un grosso respiro. Quello che respirò era orgoglio. Era fierezza. Era libertà. Era uguaglianza. Era consapevolezza che una scelta poteva cambiare il corso degli eventi.
Fece un passo, quello che respirò era vita.
Un secondo passo, felicità.
Un altro, ammirazione per chi ci aveva creduto.
Un altro ancora, soddisfazione.
Era il 2 giugno 1946. La prima volta che le donne italiane avrebbero potuto votare. E lei c’era, lei contava, lei cambiava il corso degli eventi.
E in quel giorno di sole, anche lei avrebbe fatto la differenza.