Regolamento e Incipit
Modulo d’iscrizione
TESTI VINCITORI
ISABELLA REDONDI (ICS “S. G. Bosco” Cremeno)
prima classificata
… Rebecca era la mia migliore amica: le nostre mamme si conoscevano da sempre in quanto nate e cresciute nella stessa via. Eravamo simili per carattere e identiche nel vestire perché la mamma di Rebecca, Miriam Arìas, era un’ottima sarta e cuciva i vestiti sia per me sia per sua figlia.
Rebecca era alta, con i capelli color ruggine, gli occhi azzurri ed era magra, mentre io, pur della stessa corporatura, avevo capelli e occhi marroni.
Andavamo sempre a scuola insieme, passavamo insieme interi pomeriggi e spesso sua madre ci offriva la labna, lamentandosi che i tempi tristi non le permettevano di usare pistacchi e pesche, ma solo i petali di rosa che noi raccoglievamo in giardino.
Così ci chiedeva di immaginare quello che non c’era, convinta che presto avrebbe avuto tutti gli ingredienti giusti per quello che era un piatto di festa.
Tutte le mattine passavo da casa sua a chiamarla e andavamo a scuola insieme, mano nella mano, con la cartella in spalla e un bellissimo cappottino blu ovviamente cucito dalla mamma di Rebecca.
Una mattina che sembrava come tutte le altre, Rebecca però non c’era e il portone di casa sua era chiuso. Aspettai un po’ e poi, non vedendola arrivare, andai a scuola.
Mi accorsi che, come Rebecca, anche altri bambini non c’erano. Il pomeriggio passai a trovarla, pensando di vederla a letto malata: invece lei stava benissimo.
Le chiesi come mai non fosse venuta a scuola e lei rispose con gli occhi pieni di lacrime che non poteva più venire. Non capivo perché fosse triste: io avrei fatto qualsiasi cosa per restare a casa…
Rebecca mi indicò una stella gialla sul cappottino che a me parve bellissima e subito chiesi a Miriam di farne una uguale, anche per me. Con gli occhi bassi rispose che solo loro potevano averla. Ma loro chi? A me sembrava così ingiusto: ci eravamo sempre vestite nello stesso modo e ora io non potevo avere una bella stella gialla sul mio cappottino?
Poi Miriam mi spiegò il significato di tante parole che avevo sentito, ma mai ascoltato: razza pura, religione diversa, minaccia per gli ariani, leggi razziali, arresti…
Un pomeriggio trovai il portone di casa sua chiuso e rimase così per tutti i giorni che seguirono. Non le rividi più.
Lessi il loro nome molti anni dopo, in un elenco di deportati ebrei in un campo polacco.
– Nonna, cos’è successo a Rebecca e a Miriam? – chiese Clara.
– Non lo so, ma lo possiamo immaginare. L’unica cosa da fare ora è mettersi al lavoro per preparare la labna! – cambiò argomento la nonna.
Una lacrima le scese lungo la guancia, ma la nipote fece finta di non vederla. Poi corse eccitata in cucina, seguita dalla nonna che ora sorrideva.
ANNA LOMBARDO (Scuola “A. Nava” Lecco)
seconda classificata
…Rebecca era più grande di me solo di qualche mese, e questo ci permise di fare amicizia più facilmente, anche perché eravamo vicine di casa: lei abitava di fronte a me, e la stradina di campagna che ci divideva era così stretta che gli alberi piantati nei nostri giardini si sfioravano e le ciliegie e le pesche crescevano vicine come da un’unica pianta.
Quando sedevamo sui gradini della casa e lei mi raccontava le sue lezioni a scuola, io restavo affascinata, e l’avrei ascoltata per giorni… ah, che bei ricordi… quello fu forse il periodo migliore della mia vita.
La nonna tacque, gli occhi sognanti, ma venne richiamata alla realtà da Clara: – Dai, sono impaziente, raccontami come continua la storia!
– Giocavamo nel viottolo alla corsa – io la battevo sempre – e con le biglie – era lei che batteva me – e passavamo interi pomeriggi a passeggiare nell’erba alta, con il cane di Rebecca che ci zampettava intorno, spensierati come solo i bambini e i loro animaletti possono essere. Quando tornavamo, io le davo un cesto di ciliegie e lei una cassetta di pesche… Le mangiavamo guardando il tramonto.
La nonna a questo punto si fermò e si fece improvvisamente seria.
– Tutto andò bene finché il papà di Rebecca perse il lavoro. In realtà non lo perse, glielo tolsero proprio, glielo rubarono con un’unica scusa: erano ebrei, e questo comportava una colpa maggiore di chi era ladro o assassino, ma era di razza purissima. In fondo, molti tra i soldati che gli portarono la comunicazione facevano parte delle stesse pessime categorie.
Insomma, il padre di Rebecca non andò più a lavorare: un vero peccato, perché i dolci che vendeva erano proprio buoni.
La famiglia Arìas dovette affrontare non solo le difficoltà economiche, ma anche quel pregiudizio meschino che li circondava.
Da quel giorno, la gente scoprì magicamente che in realtà i pasticcini non erano buoni per niente, e che anzi, ogni paesano aveva sofferto di mal di stomaco dopo averne mangiato uno. Le sorelle di Rebecca si trasformarono in persone poco raccomandabili in un batter d’occhio, ed era veramente inopportuno che la figlia degli Arìas corresse e giocasse a biglie in mezzo alla strada, insieme con quella sconsiderata bambinetta che le girava attorno.
Mentre diceva così, la nonna sorrideva, di un sorriso amaro che nascondeva dietro di sé un’infinita tristezza e una altrettanto smisurata rabbia e vergogna per essere stata impotente, o forse per non aver fatto quello che avrebbe potuto fare.
– Continua, per favore – sussurrò in un soffio Clara, che si rendeva conto che dopotutto la “Fissata” non aveva fatto male a dar loro quel compito.
– Non c’è molto da dire. Sembrava che i giorni passassero lentamente, e invece ora li rimpiango, sapendo che sono volati troppo veloci perché, nonostante tutto, anche se Rebecca nel frattempo non andava più a scuola, almeno potevamo ancora mangiare le ciliegie e le pesche; e poi, io l’avevo lì con me…
Un brutto giorno, me lo ricordo come fosse ieri, mi alzai dal letto e sentii che nell’aria qualcosa non andava, c’era un che di strano, di sbagliato.
Feci colazione, mi vestii ed uscii in giardino: le finestre erano serrate, la casa chiusa: gli Arìas erano partiti. Rebecca se n’era andata. Nonostante fossi piccola, intuivo, non so bene come, che non si erano semplicemente trasferiti.
Pochi mesi dopo, venne a vivere nella casetta di fronte alla mia una signora simpatica, ma che lasciò appassire il pesco.
Prima di morire, però, l’albero lasciò cadere un frutto, che scivolò sul tronco del ciliegio ed atterrò nel mio giardino.
Ora il ciliegio ed il pesco crescono ancora, vicini, e le loro radici si incrociano sottoterra.
ANNA GUERCI (ICS “Mons. L. Vitali” Bellano)
terza classificata ex-aequo
…frequentavo il primo anno della scuola elementare con altri quarantadue bambini, ma io avevo solo una vera amica, Rebecca. Sedevamo nello stesso banco biposto, in una grande aula.
Sulla parete dietro la cattedra, rialzata da una predella, erano appesi i ritratti del Duce, del Papa e del Re. Appena l’insegnante entrava in classe, scattavamo sull’attenti e recitavamo la preghiera alla fine della quale gridavamo: “Viva il Duce”. Io trovavo la cosa divertente, invece Rebecca muoveva appena le labbra.
Trascorrevamo insieme i pomeriggi. Mio papà però non voleva che la incontrassi.
Un giorno lo sentii gridare a mia madre: “Vuoi capire che per noi può essere pericoloso frequentare quelle persone?”.
Nonostante questo, le nostre madri erano diventate grandi amiche perché i miei genitori possedevano un negozio di alimentari e la madre di Rebecca veniva spesso a fare la spesa da noi. Un giorno Miriam entrò nel negozio con gli occhi rossi e chiamò da parte la mamma. Ascoltai il loro discorso e capii che il papà di Rebecca era stato caricato su un treno insieme a tante altre persone. Miriam era disperata.
Alcuni giorni dopo Rebecca mi confidò che, da quando non c’era più suo padre, sua mamma stava cercando dei lavoretti da svolgere ma nessuno le offriva lavoro perché era ebrea.
Non avevo mai sentito quella parola e non ne comprendevo bene il significato.
Rebecca scoppiò a piangere: “Non hai capito quello che sta succedendo a noi ebrei? Non ti rendi conto che la maestra mi isola e dice ai bambini di non giocare con me? Tu sei la mia unica amica!”.
L’abbracciai e le promisi che non l’avrei mai abbandonata.
“In casa viviamo con paura. Ogni volta che qualcuno bussa alla porta, temiamo che vogliano portarci via! Mangiamo solo grazie ai tuoi genitori”.
“Perché?” chiesi stupita.
“A fine mese, quando la mamma deve pagare il conto del negozio, invece dei soldi tuo padre accetta i nostri piccoli gioielli di famiglia, ed è molto generoso nel darne valore”.
Ero sconvolta. Cosa avevano fatto di male questi ebrei per meritare un simile trattamento? Quella notte non riuscii a dormire.
Il giorno seguente a scuola non vidi Rebecca. Corsi a casa disperata. Trovai nel negozio Miriam e Rebecca che mi stavano aspettando.
Miriam mi disse: “Purtroppo Rebecca deve salutarti, qui non possiamo più rimanere. Una nuova legge le impedisce di andare a scuola, io non trovo più lavoro e troppi di noi stanno sparendo. Per salutarti ho preparato il dolce che ti piace tanto: Labna dolce, profumata con pesche, pistacchi e petali di rosa; in Italia non la preparerò mai più.
Abbiamo trovato qualcuno che ci accompagnerà in Svizzera. A te, Adele, lascio il mio ricettario”.
Mio padre, che aveva ascoltato in silenzio fino a quel momento, estrasse dal fondo di un cassetto un sacchetto: all’interno c’erano tutti i gioielli di Miriam!
“Tienili, ne hai più bisogno tu. Mi ripagherai quando questo orrore sarà finito”.
Gli occhi di Miriam si riempirono di lacrime e uscì nascondendo il sacchetto in mezzo al seno.
Ci fu un attimo di silenzio assordante in cui sembrava che il mio cuore stesse per scoppiare. Finalmente capii cosa stava accadendo.
“Non avrei mai immaginato che tu volessi aiutare gli ebrei” disse mia madre a mio padre.
“Non volevo aiutarli. Volevo solo metterlo in quel posto ai fascisti!”.
– E poi non li hai più rivisti? – chiese Clara.
– Purtroppo no. Alla fine della guerra mia madre fece di tutto per rintracciarli, ma non ne sapemmo più niente.
Riprese fiato e continuò.
– Clara, avrei potuto raccontarti una storia a lieto fine, ma non tutte ce l’hanno.
– Non ti preoccupare, nonna: a scuola non porterò solo la ricetta di Miriam Arìas, ma avrò anche una storia vera da raccontare”.
MADDALENA BARUFFALDI (Scuola “N. Tommaseo” Introbio)
terza classificata ex-aequo
Rebecca ne aveva dieci e l’ho sempre considerata come la sorella maggiore che non ho mai avuto.
Suonava il violino ed io la stavo ad ascoltare, seduta in punta sulla poltroncina di velluto rosso che era riservata a me, in quel salottino elegante, mentre mia madre aiutava il signor Arìas nel negozio di stoffe.
Sai, erano tempi duri: mio padre era stato portato via dalla tisi e così la tua bisnonna aveva imparato a tagliare, a cucire, a stirare e a preparare le parti degli abiti maschili che venivano spediti persino a Budapest e a Istanbul.
Rebecca suonava, concentrata, con gli occhi chiusi, le braccia tese, i capelli divisi con cura sulla fronte e raccolti da una fermaglio d’argento, mentre io mi sentivo goffa, nei miei vestiti di lana e con gli zoccoli ai piedi… Guardavo le sue scarpe di vernice, senza invidia, ma con profonda ammirazione.
Quei pomeriggi per me erano il salto in una favola: stanze, salottini, quadri, musica, libri illustrati che potevo guardare a piacimento e che Rebecca mi leggeva, ma soprattutto quel meraviglioso profumo di dolci…
Solo allora Rebecca lasciava il violino, mi prendeva per mano e via, a rotta di collo verso la cucina dove sua madre, Miriam, sovrintendeva al rito: decorava la labna con boccioli di rosa esclamando: “Forza bambine, i pistacchi e le pesche sono un dono dei nostri cugini di Salonicco, facciamogli onore!”.
Riconoscevo il sapore del latte cagliato che tante volte avevo mangiato con la polenta, ma pesche, pistacchi e petali di rosa erano una delizia per il palato che si trasformava in pura gioia riflessa negli occhi di Rebecca.
E poi fuori, a giocare a campana nei i vialetti fra le rose che mi riportavano immediatamente al profumo del dolce appena gustato.
Un giorno, la mamma mi chiamò e, sapendo che a malincuore lasciavo quel sogno, sventolò oltre il muretto del giardino un foglietto a righe: “Ho la ricetta!!!”.
Tornai e fantasticammo di un giorno in cui avremmo avuto chissà quali strani parenti in giro per il mondo, capaci di fornirci ingredienti speciali per realizzare le meraviglie di Miriam Arìas.
Tutto fu spezzato quando le leggi razziali cominciarono a diradare le comunità ebraiche; prevedendo il peggio, gli Arìas presero la via della fuga: sarebbero andati in Svizzera, passando attraverso la Valtellina. Miriam e Rebecca opposero per mesi una strenua resistenza, convinte com’erano che con la dolcezza si potesse vincere ogni male; ma alla fine dovettero rinunciare ai loro propositi.
Mi confidò tutto Rebecca un pomeriggio d’autunno, portandomi un pezzetto di quel dolce che adesso aveva un gusto stranamente amaro.
– Forse è la nostra ultima merenda insieme – mi sussurrò l’amica.
– Finirà la guerra, ci ritroveremo e apriremo una pasticceria tutta nostra, vedrai! – le risposi, sapendo però che i sogni non sempre si avverano.
Ecco cosa mi resta di Rebecca e della sua famiglia: il ricordo dolcissimo della nostra infanzia e le ricette scritte con la grafia minuta di una donna capace di cogliere ogni momento dell’esistenza come unico.
La nonna sembrava persa in un’emozione indicibile e io cominciai a trafficare in cucina.
– Dove tieni le pesche?
La nonna sorrise e, come ritornata dopo un viaggio lontanissimo nel tempo, si alzò e cominciò ad accatastare sul tavolo barattoli, arnesi vari e ciotole annunciando:
– Ecco dov’è adesso Rebecca!